La storia di Betti: Insegnante con la valigia.





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Siamo di fronte all’ennesimo pasticcio o più semplicemente ad una banale propaganda politica? Poiché per l’immissione in ruolo dei “famosi” centomila precari, così come preannunciato dal Governo, i numeri non tornano. Cominciamo col dire che, riforma a parte, quest’anno sarebbero comunque entrati in ruolo circa 30mila docenti in sostituzione dei colleghi pensionati. Ma tralasciando numeri e algoritmi, la cosa che maggiormente sconcerta e sta prendendo sempre più “forma” sono i dati geograficamente incongruenti tra Nord e Sud. Le cattedre disponibili, infatti, si concentrano prevalentemente nelle regioni settentrionali, mentre i docenti, quasi tutti provenienti dalle “vetuste” G.A.E., perlopiù al Sud. A questo punto si profila uno scenario davvero inquietante: una “ migrazione” di massa della classe docente dal Sud verso il Nord?

- Per me è un’ingiustizia e una prevaricazione dello Stato. Ma, soprattutto, un limite insopportabile alla libertà di poter progettare la propria vita a lungo termine.

Le parole di Betti de Francesco, 43enne, docente di sostegno precaria e da tempo in attesa di stabilizzazione, risuonano come macigni. In Puglia dopo 10 anni di permanenza in Lombardia, due lauree all’attivo (Scienze dell’Educazione e della Formazione), diversi Master e specializzazioni, Betti è tra quelli che hanno dichiarato a caratteri cubitali il loro “NO”.

Un “voto” alla Buona Scuola.

- Non classificabile. Ho sempre pensato che la scuola fosse potenziamento di abilità e acquisizione di competenze. Specie per i diversamente abili. Poi, il fatto di poter dare una speranza in più ai piccoli in difficoltà e forse strappare anche un sorriso ai genitori, mi ha portata a studiare con più determinazione. E adesso, a 43 anni, “qualcuno” mi dice che devo fare ancora delle “scelte”.

In che senso?

- La mia seconda laurea mi è costata molti sacrifici. Appena sposata, ventisettenne, ho lasciato la Puglia per la Lombardia. Anche allora una scelta obbligata perchè decisi di seguire mio marito che prestava servizio al Nord come carabiniere. Non è stato facile abbandonare gli affetti, ma la mia piccola famiglia veniva e viene prima di tutto. Davvero anni difficili. Lavoravo tutto il giorno come commessa e studiavo. Ricordo che per raggiungere l’Università impiegavo due ore di treno. Per non parlare della lontananza dai miei e della temporanea rinuncia alla maternità. Tutto nella speranza di un futuro migliore.

Poi di nuovo in Puglia.

- Sì, perché nel 2008, finalmente, si è presentata l’occasione che aspettavo da tanto: di essere supplente presso una scuola primaria di Bari. A conti fatti mi conveniva accettare perché di lì a poco anche mio marito sarebbe stato trasferito. E così è stato. Per questo motivo anche io mi trovo a far parte di quella lunghissima lista di docenti “sudisti”, disperati, in cerca di stabilizzazione.

Disperati?

- Perché è disperante pensare che dopo aver comprato, non più di tre mesi fa, con un mutuo, la nostra prima vera casa e di aver sperato di riunire legittimamente la mia famiglia tanto da pensare a un figlio, io mi ritrovi nuovamente a dover “scegliere” per lavorare. Sì perché questo è l“aut aut” dello Stato: ti trasferisci oppure niente ruolo e quindi niente lavoro! Ma poi che scelta dovrei fare? Mettere nuovamente in discussione la famiglia per il lavoro? Mio marito ormai è stabilmente qui. Poi, francamente, come potrei vivere da sola in una città del Nord con uno stipendio di neanche 1200 euro? Non si può chiedere di fare sacrifici a chi già “patisce” la fame. Insomma non è possibile scegliere. Perché non è possibile che la realizzazione di una cosa così importante possa escluderne un’altra altrettanto importante. Penso alle parole del Santo Padre quando dice che “Il lavoro è Sacro perché esprime la dignità delle persone. Ma l’obiettivo della produttività non può tenere in “ostaggio” la famiglia”. Ecco perché il 14 agosto, limite posto dal Governo per “scegliere”, con la morte nel cuore, il mio “NO” non l’ho scritto… ma “GRIDATO”!

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